Allora, mettiamo subito le cose in chiaro: il maschilismo è un male radicato, da estirpare. Senza addentrarci troppo in un’analisi sociale-antropologica nella quale ci perderemmo, dalla quale non ne usciremmo più e che neanche ci interessa fare, speriamo che possa bastare scrivere come la presunta superiorità dell’uomo sulla donna sia un retaggio culturale sbagliatissimo (e chi più ne ha più ne metta) che abbiamo ereditato – in Italia e in gran parte del mondo – e al quale avremmo dovuto rinunciare con un bel “no, grazie”, se solo in questo disgraziato Paese e globo terracqueo non esistesse un problemino chiamato ignoranza. Di maschilismo, femminismo, sessismo (ovvero la tendenza a valutare la capacità o l’attività delle persone in base al sesso, attuando di fatto una discriminazione sessuale) non si è mai smesso di parlarne – purtroppo o per fortuna – ma il dibattito sul tema si è infiammato a causa di Sanremo (toh, che strano!).
Già, il Festival di Sanremo, specchio del Belpaese, è sempre di mezzo.
Fonte inesauribile delle più disparate polemiche, la kermesse musicale è stata teatro e protagonista della cosiddetta polemica sui fiori sessisti.
“In che senso?!”, direbbe il maestro Carlo Verdone. Il senso ve lo spieghiamo noi, qualora ve lo foste persi o non l’aveste colto.
Per spiegarlo e capirlo al meglio, serve una piccola premessa, che è la seguente: sul palco del cinema-teatro Ariston è andata in scena e in onda una piccola-grande rivoluzione. È stato (anche) il Sanremo di Achille Lauro, che tra le tante cose ha detto di essere “sessualmente tutto e genericamente niente”. La mascolinità stereotipata è venuta meno per lasciare posto alla fluidità di genere e all’abbattimento delle barriere in tal senso.
Niente di nuovo sotto il sole (o forse sì?), soprattutto se si pensa al fatto che molto rockstar sono solite truccarsi e travestirsi. Un po’ come fa, appunto, Lauro, vera rockstar italiana. Ovviamente, Lauro – sfruttando la sua popolarità, il suo seguito e il palcoscenico mediatico di Sanremo – si è fatto portavoce di un messaggio nobile contro l’arretratezza culturale italiana in campo “sessuale”. Bene così.
Poi, contro gli stereotipi di genere ha preso forma anche la cosiddetta rivoluzione dei fiori. A iniziarla è stata la cantante Francesca Michielin, in gara in coppia con Fedez. Il tradizionale mazzo di fiori che le è stato portato alla fine del suo duetto-cover con il marito di Chiara Ferragni, è stato da lei stessa “dirottato” al suo partner canoro. (Sanremo, ricordiamolo, non è solo la città della musica e del Festival ma anche, se non soprattutto, quella dei fiori).
Dunque, hanno seguito l’esempio (quasi) tutte le cantanti in gara. Come a voler dire “non esistono cose solo da donna e/o solo da uomo, a partire dal mazzo di fiori”. Ok. Può apparire forse un po’ forzato e stucchevole, ma il messaggio è tanto chiaro quanto giusto e bello. Bene così.
Male, invece, oltre al maschilismo e al sessismo becero e spiccio (e aggiungeteci a vostro piacimento tutti gli aggettivi dispregiativi che desiderate), il femminismo becero e spiccio. Quel femminismo tafazziano di cui si è resa portavoce e megafono – sulle assi di quello stesso palco! – Barbara Palombelli, con un monologo imbarazzante (per essere gentili) sul gentil sesso. E di cui si sono rese protagoniste altre colleghe giornaliste sulle colonne cartacee e/o digitali dei quotidiani, politiche e anche ragazze e donne con ridicoli commenti sui social network. Ovviamente, altrettante giornaliste, ragazze e donne lato sensu hanno accolto nel modo giusto la rivoluzione dei fiori di Sanremo e allo stesso tempo hanno respinto imbarazzate il pistolotto della moglie di Francesco Rutelli.
Ma volete sapere perché è successo tutto quello? Per il motivo di cui sopra: ignoranza. Fortunatamente c’è, e ci sarà sempre, chi – uomo o donna che sia, con questa, quella o quell’altra identità di genere e con questo, quello o quell’altro orientamento sessuale – cercherà di pareggiare i piatti della bilancia. Forse invano. Ma l’illusione, la speranza di tutti noi è che prima o poi quella bilancia penda a nostro favore.
E non perché noi siamo belli, bravi e intelligenti, no, ma semplicemente perché sarebbe anche l’ora di iniziare a usare e far funzione bene il cervello (cibandolo, allenandolo, educandolo… con cura e fatica) e smetterla di custodirlo solamente all’interno della scatola cranica, nutrendolo – senza cura e senza fatica – di retaggi culturali sbagliati, stupidi, dannosi…
Insomma, basterebbe un po’ di educazione. Educazione, già… questa sconosciuta!
Una cosa, per chiudere: abbiamo letto che è sbagliato dare della “signorina” a una ragazza/donna, perché allora bisognerebbe dare del “signorino” a un ragazzo/uomo. Però, allora, dai, su, ditecelo: la galanteria non è educazione ma solo un frutto del maschilismo?!
Noi ci rifiutiamo di pensarla così e rigettiamo categoricamente questa narrazione da femminismo estremista. Che, per dirla alla Mughini, aborriamo. Pensiamo con orgoglio, diciamo a voca alta a ferma e scriviamo con fierezza che la galanteria è educazione. La stessa che non ci farebbe sentire sminuiti (anzi!) a essere chiamati “signorini”, la stessa che ci farebbe apprezzare anche un mazzo di fiori, anche non sanremese.