Buttate via tutto quello che è in più. In una barca non ci sono esuberi e funzionano solo le cose semplici. Gli spazi, quindi, sono chiari, funzionali, belli. Less is more, come diceva Mies van der Rohe.
Sono in crociera in Croazia e in questo momento mi trovo ancorato nella baia di Polače nel Parco Nazionale di Mljet, che significa isola del miele e che secondo alcuni potrebbe essere la famosa isola di Calipso dove Ulisse soggiornò ben sette anni. Insomma, un’isola dolce e irresistibile, capace di attrarre eroi greci oltre ai molti turisti.
Mi sveglio in questo paradiso nella cabina di prua, ovvero nella cuccetta posizionata nella parte anteriore della barca. Il letto segue le forme dello scafo e ha una forma triangolare. Per scendere devo girarmi di 180 gradi perché ho dormito con la testa verso poppa, la parte posteriore dell’imbarcazione. Ma non mi alzo ancora. Mi siedo, guardo sopra la mia testa e apro l’osteriggio, che sarebbe la finestra più ampia della nostra piccola stanza. Da qui posso uscire direttamente in coperta, all’esterno, due passi e sono sulla punta aguzza dello scafo sopra l’ancora, una spinta e sono in aria e poi in mare.
Un bagno appena svegli, il piacere più piacevole della barca.
Dalla superficie dell’acqua ho un punto di vista privilegiato per apprezzare la linea di Gaia. Così si chiama il Bavaria 37 Cruiser su cui navighiamo.
Il fianco è alto e senza la scaletta di poppa non ci sarebbe modo di ritornare a bordo. Mi faccio tre giri a nuoto intorno alla barca, controllo l’ancora e poi risalgo. A poppa, una piccola superficie orizzontale poco alta sull’acqua mi ospita mentre mi sciacquo via il sale con il tubo apposito avvolgibile ben incastonato nello scafo. Due spruzzi e non di più perché i trecento litri d’acqua nel serbatoio sono preziosi, soprattutto se si passa molto tempo all’ancora piuttosto che a terra.
Finita la doccetta sorpasso il paterazzo, uno dei cavi che sostiene l’albero maestro, e mi ritrovo nel pozzetto.
È questo lo spazio più vissuto della barca, luogo di comando, in cui convergono tutte le scotte e le drizze, le cime utili alle manovre delle vele.
E, cosa più importante, c’è il sistema del timone. Nelle piccole imbarcazioni moderne è quasi sempre una ruota, che ha sostituito la classica barra. Appena dietro, gli strumenti che segnalano tutte le informazioni utili alla navigazione, e oltre agli strumenti un tavolino d’appoggio, apribile, dove poter banchettare all’aria aperta. Sì, perché quello che non può mancare al pozzetto sono le sedute.
Conviviali sedute, spartane spaziose il giusto, che formano la concavità del pozzetto, proteggono dall’esterno e racchiudono al di sotto gavoni chiusi profondi dove il marinaio ripone tutte le cose utili al navigare: cime, cimette, cavi, cavetti, tubi, pompe, spugne, i parabordi, i salvagenti, l’estintore, l’ancora e ancora e ancora e chi più ne ha più ne metta. Basta che siano cose utili. Anche una piccola bici pieghevole può andare bene.
Sto nel pozzetto al posto di comando davanti al timone e di fronte vedo il boma che ondeggia attaccato all’albero. Sul boma, palo orizzontale sovrastante il pozzetto – sempre giù la testa occhio al boma! – dicevo, sul boma giace la randa ripiegata, la grande vela maestra, che sale su su maestosa fino in punta d’albero. La guarda dal basso il fiocco, la vela più piccina di prua, ora riposta avvolta sullo strallo, altro cavo simil-paterazzo. Dal pozzetto, insomma, vedo tutto e tutto ho sotto controllo.
Mi metto un costume asciutto e sento lo stomaco brontolare. Dal pozzetto ritorno sottocoperta attraverso il tambucio, il pertugio che mi porta nelle viscere della barca. Quattro comodi scalini e sono giù. Alla mia destra ho il carteggio, un piccolo studiolo utile per consultare le carte nautiche e per utilizzare la radio, mentre a sinistra si trova la zona cucina coi i fuochi, il piccolo forno, il lavello e il frighetto da cui pesco due uova. Da uno stipetto superiore prendo la farina d’avena, con il pensiero di preparare qualche pancake.
Giorgia sta ancora sonnecchiando nella cabina di prua. Tra me e lei si trova il grande tavolo-salotto (non proprio un nome tecnico) dove consumare i pasti e poi consumare una pennichella sui comodi divanetti che lo circondano. Luce in abbondanza penetra dai quattro oblò laterali e dall’osteriggio sopra il tavolo. Sotto il tavolo, invece, abbiamo incastrato la lettiera della gatta – non l’ho ancora vista, non so dove si sia imbucata. Da quest’area centrale culla e cuore della barca si notano due porte, rispettivamente dietro il carteggio e dietro la zona cucina.
La prima si apre sul mini-bagno, unico e minimalista, un lavello e una tazza che fungono anche da bidet e doccia, tutto in un metro quadrato.
La seconda è l’entrata alla cabina di poppa, la più profonda e spaziosa della barca (anche se meno alta di quella di prua) dove adesso stanno dormendo il Mario e la Emi, i miei vecchi. Penso sia il primo giorno della mia vita in cui sono stato più mattiniero di loro. Sto diventando grande.
Mi metto a sbattere gli albumi con la farina e Giorgia mi raggiunge, un bacio e apre il tavolo. Prende tazze e tovagliette – penso abbia fame. Anche la gatta ha fame, è arrivata e si strofina sui miei piedi miagolando qualche miagolio-supplica e indicando con i baffi la scodella vuota. Con Giorgia ci muoviamo all’unisono nell’armonia di spazi funzionali tipici della tribù dei marinai. Anche le cose più semplici richiedono pochi esatti movimenti. E sottocoperta tutto è a portata.
La colazione è pronta e la gatta è sazia.