Se un tempo l’oro, quello nero, era il petrolio, oggi e domani l’oro, quello verde, è l’idrogeno. Quindi, accantonato il nero, ecco il verde. Ma parlando di idrogeno, non si può non parlare anche di idrogeno grigio e blu. No, non stiamo dando i numeri dando i colori, ma stiamo semplicemente elencando le tipologie di idrogeno che si possono produrre dal carbone, dal metano o dall’acqua, visto che l’idrogeno di per sé non esiste in natura.
Ecco, l’idrogeno verde, dei tre, è quello buono, perché prodotto da fonti rinnovabili, o meglio dall’elettrolisi dell’acqua, processo che porta alla conversione dell’energia elettrica (green rispetto ai combustibili fossili) in energia chimica.
Allo stesso tempo si tratta di un procedimento che richiede una grande quantità di energia che, per non creare un ovvio cortocircuito ambientale, deve provenire da fonti rinnovabili come solare, l’eolico, il fotovoltaico e il geotermico che oggigiorno, però, sono ancora in netta minoranza.
Ma facciamo un passo indietro. Se l’idrogeno verde è il nuovo “oro nero”, o meglio, “oro verde” eco-friendly, al momento è surclassato dall’idrogeno grigio e da quello blu: ogni anno delle 73,9 milioni di tonnellate di idrogeno prodotte, il 96% (ovvero 70,9 tonnellate) è grigio, nel senso che proviene dal fossile (petrolio, carbone, metano) e che per produrne un chilo ne produce nove sotto forma di emissioni di CO2.
Dicesi, invece, idrogeno blu, quando gli enormi quantitativi di anidride carbonica rilasciati vengono recuperati e sotterrati nei giacimenti esausti di petrolio e gas; con il problema, però, che lo stoccaggio della CO2 costa molta energia, che la CO2 stessa nel tempo si fa liquida e i volumi mastodontici di questi scarti rappresentano una tanto concreta quanto grave minaccia sismica. A tal proposito, il procedimento stesso di convogliare l’anidride carbonica prodotta all’interno dei giacimenti esauriti porta alla produzione di idrogeno, ma porta gli stessi problemi appena elencati.
Inoltre, lo stesso idrogeno verde ha un bel problema, che non è ambientale, bensì economico: il prezzo. Il costo per un chilo di idrogeno verde, infatti, va dai 4 ai 6 euro (contro l’1,5 di quello grigio e i 2 di quello blu).
In aggiunta, al momento, il 60% del costo del green hydrogen è dovuto al costo dell’elettricità. Questo fattore si somma all’insufficienza di energia rinnovabile, al processo di produzione energivoro (non sostenibile con le rinnovabili, perché – appunto – non sono quantitativamente sufficienti); insomma, manca l’energia verde per alimentare in modo green gli elettrolizzatori, i macchinari che producono idrogeno dall’acqua, che, tra l’altro, hanno un costo molto elevato.
Poi, in realtà, c’è un’altra problematica ancora da tenere conto: in un anno, in Europa, ci sono circa 1000-1300 ore di sole, sulle 8760 totali: esiste, dunque, il problema non da poco di alimentare gli elettrolizzatori per la restante parte di tempo; grazie all’eolico si potrebbero ottenere più ore di funzionamento, ma solo in Nord Europa e sull’Oceano.
Ciò detto, l’Ue si dice fiduciosa: con l’aumento della produzione di idrogeno green, si prevede un sensibile calo dei prezzi degli elettrolizzatori stessi entro il 2030. Di rimbalzo, entro il 2040, il costo per chilo dell’idrogeno verde dovrebbe diventare finalmente competitivo, attestandosi sui 2 euro al kg.
È solo con il verificarsi di questo complesso effetto domino che si potrà compiere la tanto agognata transizione dal fossile al rinnovabile, andando a sostituire i tradizionali combustibili con l’idrogeno verde per i fabbisogni dell’industria pesante e per il settore del trasporto (aerei, treni, navi e camion).
Ma qual è il motivo per il quale si parla tanto di idrogeno e di idrogeno verde? Presto detto: la decarbonizzazione e cosiddetta transizione energetica verso le rinnovabili. L’Unione Europea, infatti, come noto, si è posta l’obiettivo delle zero emissioni di carbonio nel 2050 e per raggiungere questo traguardo (al momento più impossibile che possibile) va da sé che il Vecchio Continente debba compiere un’inversione a “u”, imboccare con decisione la nuova strada e non invertire più il senso di marcia. Cosa che, ahinoi, non è ancora successa.
Giusto per intenderci, nonostante nel Recovery Plan italiano – il cosiddetto Piano nazionale di Ripresa e Resilienza di Mario Draghi – il governo abbia stanziato 59,33 miliardi di euro per la transizione ecologica e 3,19 per l’idrogeno, l’Italia oggigiorno produce solamente 1GW l’anno di rinnovabile in eccesso: di questo passo gli obiettivi da raggiungere, secondo la tabella di marcia entro il 2030, saranno raggiunti solamente nel 2085…
Quale tabella di marcia? Questa: risparmiando l’energia grazie a sistemi più efficienti, aumentando la produzione di energia da fonti rinnovabili, utilizzando l’idrogeno prodotto nell’industria pesante e nel trasporto, entro il 2040 (in teoria!) avremo una produzione di rinnovabile in eccesso da utilizzare per produrre idrogeno verde e arrivare, entro il 2050, a sostituire il combustibile fossile. L’Italia, come detto, è già (molto) indietro. E la realtà, sempre come detto prima, è tutt’altro che in bolla con la tabella di marcia. Transizione ecologia e idrogeno verde: nella pratica, al momento, è mission (im)possibile.